Diversità di genere: 3 falsi miti che dovresti conoscere

Sulla diversità di genere si è parlato molto negli ultimi anni, e il dibattito sulle differenze tra uomo e donna nell’ambito lavorativo è ancora aperto.

Ma prima di tutto facciamo chiarezza su una cosa: qual è il significato di “diversità di genere”? Come e da dove nasce questo termine?

Diversità di genere: cosa è?

Per spiegare il significato di diversità di genere, o differenza di genere, è doveroso fare prima una precisazione, e cioè bisogna distinguere:

  • le differenze di sesso, che sono biologiche
  • le differenze di identità sessuale (identità di genere), che sono dovute ad aspetti psicologici, sociali, culturali.

Il concetto di genere è nato negli anni Settanta, quando le donne prendono coscienza del perdurare di una situazione di grave asimmetria e di squilibrio tra i ruoli sessuali. Da questa profonda consapevolezza sono poi nati studi, associazioni, movimenti e politiche atte a riequilibrare l’uguaglianza tra i due sessi. Dove per uguaglianza di genere si intende l’uguaglianza dei diritti e l’accessibilità: uomini e donne non sono e non potranno mai essere la stessa cosa, ma devono avere gli stessi diritti.

Alcuni dati sulla diversità di genere: cosa è successo con il Covid?

Il recente discorso della Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen durante la plenaria del Parlamento Europeo, sul caso della sedia mancante per lei nell’incontro col Presidente turco Erdogan, ha riportato alla luce l’emergenza di intervenire con atti concreti sulla parità di genere in ogni ambito e settore.

«Mi sono sentita ferita e lasciata sola: come donna e come europea. Non riesco a trovare alcuna giustificazione per il modo in cui sono stata trattata. Sarebbe successo se avessi indossato una giacca e una cravatta? (…) Come leader, posso parlare e farmi sentire. Ma che dire di milioni di donne che non possono? Donne, che sono ferite ogni giorno in ogni angolo del nostro pianeta ma non hanno né il potere né la carica di parlare?»

La Presidente della Commissione Ue ha colto nel vivo una situazione che sembrerebbe stagnante, anzi in peggioramento: il Covid ha allontanato di 36,5 anni la gendere quality nel nostro Paese, arrivando da 99,5 anni alla cifra di 135 anni.

Secondo lo studio europeo di Ewob, l’associazione European Women on Boards di cui fa parte l’italiana Valore D, l’Indice sull’uguaglianza di genere 2020 evidenzia un progresso lento in Europa. Sono solo il 6% le società che compongono l’indice di borsa Stoxx Europe 600 con a capo una donna e solamente in 130 aziende (il 19%) è presente una donna AD o direttore.

Con la pandemia molte donne si sono ritrovate alle prese con il difficile compito di conciliare lavoro da remoto, didattica a distanza e cure domestiche. A dicembre 2020, la recessione femminile ha colpito 99 mila posti di lavoro su 101 mila. Le lavoratrici italiane hanno perso lavoro e stipendio, il tasso di occupazione femminile è sceso in Italia sotto il 50%, contro una media europea del 66%. Stiamo perdendo una forza lavoro preziosissima: infatti, le aziende con maggiore presenza femminile rendono in Borsa +2,5% delle altre.

A questi ritmi ci vorranno oltre 10 anni per raggiungere la parità di genere nei Cda delle 3 mila più grandi società quotate degli Usa, uno dei paesi più avanti nel rispetto dell’inclusività e nella lotta al gender gap. Nel nostro paese, sono meno del 10% le società che hanno una donna come AD o Presidente (dati Rapporto Cerved Group SpA-Fondazione Marisa Bellisario 2020).

I progetti e le politiche di Diversity and Inclusion, e soprattutto quelle riguardanti la diversità di genere, sono quanto mai necessarie e urgenti.

Come ha affermato Ursula von der Leyen nel suo discorso:

«La Commissione convocherà presto una riunione con le altre Istituzioni per discutere su come tutti noi possiamo fare meglio. La metà della popolazione europea è costituita da donne. E questo deve riflettersi nelle istituzioni nel cuore dell’Europa.»

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diversità di genere

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I falsi miti sulla diversità di genere esistono?

Tra le tante dichiarazioni, affermazioni e i fiumi di dati pubblicati, come gli ultimi che abbiamo appena visto, emergono tre punti importanti su cui è doveroso fare chiarezza. Ecco i tre principali falsi miti principali di cui è bene parlare.

La donna che lavora non ha gli stessi riconoscimenti dei colleghi uomini in quanto è madre. Falso

Pare che, nel nostro Paese, le donne facciano fatica ad emergere sul lavoro per via della maternità. Sicuramente il problema della conciliazione vita-lavoro e un sistema di welfare ancora alquanto inadeguato rappresentano una grave difficoltà per le mamme lavoratrici. Ma in realtà non è la maternità il vero ostacolo, non è la vera causa del problema.

Trattare la maternità come la causa dell’impedimento alla carriera femminile comporta il rischio di sottovalutare tutto il resto. Infatti, la diversità di genere è legata all’essere donna “in quanto tale” e non, come parrebbe, all’essere donna “in quanto madre”.

Numerosi studi e ricerche hanno fatto luce sulle difficoltà incontrate da donne single e senza figli, che figli non intendono averne o che hanno superato l’età fertile. Sono loro la prova del nove. E anche loro pagano le conseguenze degli stereotipi (o bias) che influenzano il datore di lavoro sulle loro performance, producendo una catena di svantaggi che si traduce poi in diseguaglianza. E’ sulla base di questi stereotipi che si tende, ad esempio, a pensare all’uomo come assertivo, autorevole e razionale, mentre alla donna come empatica, emotiva e dedita alla cura. Le conseguenze sulla diversità di genere sono evidenti: semplificando al massimo, l’uomo è “naturalmente” portato per fare il manager e lo scienziato, la donna no.

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All’interno del mondo aziendale i bias di genere (o gender bias) si traducono quindi in una maggiore difficoltà, per le donne che ricoprono ruoli tradizionalmente maschili, ad ottenere credibilità e ad accedere a ruoli di leadership.

La differenza di genere si esaurirà grazie alle nuove generazioni, che sono più “gender equal”. Falso

Secondo questa prospettiva, è verosimile pensare che la parità sarà raggiunta con il ricambio generazionale. Col tempo, infatti, molte professioni tradizionalmente maschili potranno essere bilanciate dalla presenza femminile. E la raggiunta parità tra i più giovani si trasmetterà anche ai senior.

Eppure, gli studi dicono che, a parità di curricula, gli uomini continuano ad avere più probabilità di essere assunti. E che, a parità di performance, gli uomini hanno più probabilità di essere promossi.

Secondo Rossella Palomba, demografa al CNR ed esperta di problemi di genere, il tempo necessario per colmare la diversità di genere nei posti di comando per alcune professioni è, per l’appunto, assai lungo. Le previsioni, infatti, sono tutt’altro che ottimiste. Il 2037 sarà l’anno della parità tra i dirigenti dei ministeri, il 2087 quello tra i dirigenti del sistema sanitario nazionale, il 2425 sarà l’anno della parità ai vertici della magistratura, il 2660 tra i diplomatici.
Secondo le sue ricerche, l’Italia si piazza 90esima per occupazione femminile, 121esima per parità salariale, 97esima per incarichi al vertice. Abbiamo ancora moltissima strada da fare.

Il gender pay gap esiste ed è una differenza salariale che andrà via via colmandosi. Falso

In Italia, come in tutti gli altri paesi al mondo, si intente per disparità salariale (il pay gap) un trattamento economico differente. In pratica, un uomo e una donna hanno le stesse competenze, fanno lo stesso lavoro per lo stesso numero di ore, ma l’uomo viene pagato di più. Due individui identici in tutto e per tutto ricevono uno stipendio diversa perché uno è maschio e una è femmina.

Ma non è tutto qui. La popolazione maschile e quella femminile guadagnano in media cifre diverse, partecipano al mondo del lavoro in modi diversi e vengono trattate in maniera diversa. Per diversi motivi. E la ripercussione è anche sui rispettivi redditi.

Lavoro familiare

Il primo motivo è dovuto al fatto che gli uomini passano più tempo al lavoro, mentre le donne ne passano molto anche nel lavoro familiare, per la cura della casa e della famiglia. Lavoro che non è retribuito. Quindi, le donne guadagnano meno degli uomini perché spesso lavorano meno ore, dato che sovente si occupano dei figli, puliscono la casa e si prendono cura degli anziani. Situazione che causa anche un altro importante fenomeno: la rinuncia alla possibilità di promozione e di carriera.

Formazione scolastica

Il secondo motivo riguarda il percorso di studi e la formazione. Se una donna sceglie di studiare per diventare maestra e un uomo sceglie ingegneria elettronica, non è sorprendente che poi uno guadagni più dell’altra. Le donne sono oltre la metà dei laureati in Italia, ma rappresentano l’80% delle iscritte a facoltà linguistiche, psicologiche, umanistiche, e solo il 30% è iscritto a quelle scientifiche, considerate più “maschili.

E i bias di genere non influenzano solo gli studi, ma anche la divisione del lavoro. Per esempio, nella categoria Istat dei ‘lavandai, stiratori a mano ed assimilati’, le donne sono l’80%. Idem per le professioni qualificate nei servizi sanitari, come quelle di assistente  o massaggiatrice. Tra i tecnici informatici, invece, l’84% è rappresentato da uomini.

Soffitto di cristallo

Il terzo motivo implica la possibilità di fare carriera. Maggiore è il potere, il prestigio e la retribuzione di un ruolo professionale, e più il numero di donne che la occupano diminuisce. Ad esempio, le donne sono la maggioranza dei laureati, e hanno voti più alti degli uomini al momento della laurea. Ma nell’ambito accademico, già tra i ricercatori le donne non raggiungono il 50%, come professore associato la quota cala, e scende sotto il 20% per il ruolo di professore ordinario.

Quindi, se si pensa a una cattedra universitaria, chiunque si sieda a quella cattedra prende la somma di denaro prevista per essa. E fin qui è tutto molto chiaro. Ma questo non esclude che per una donna ottenere quella cattedra sia molto difficile.

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